L'esperimento di Rosenham: la dimostrazione delle menzogne della psichiatria.
Tratto dal libro "Il pregiudizio psichiatrico"
del dottor Giorgio Antonucci.L'esperimento
L'esperimento voleva appurare se le strutture psichiatriche fossero in grado di scoprire nei loro ospedali degli "infiltrati" sani di mente.
Nell'esperimento furono utilizzati otto pseudopazienti: quattro psicologi, un pediatra, uno psichiatra, un pittore e una casalinga: tre erano donne e cinque uomini.
Tutti quanti ricorsero a pseudonimi, per paura che le diagnosi loro attribuite potessero in seguito danneggiarli. Quelli di loro che esercitavano professioni appartenenti al campo della salute mentale finsero di avere un'altra occupazione, in modo da evitare le speciali attenzioni che avrebbero potuto essere loro prestate dallo staff, per motivi di rispetto o di prudenza, nei confronti di un collega malato.A parte il sottoscritto (ero il primo pseudopaziente/psicologo, e la mia presenza era nota all'amministrazione dell'ospedale e al primario psicologo e, per quanto ne sappia, soltanto a loro), la presenza degli pseudopazienti e la natura del programma di ricerca erano sconosciuti allo staff dell'ospedale.
Per poter generalizzare i risultati, si cercò di essere ammessi in vari ospedali. I dodici ospedali del campione si trovavano in cinque diversi stati americani della costa atlantica e di quella pacifica. Alcuni erano vecchi e squallidi, altri erano nuovissimi. Alcuni avevano un orientamento sperimentale, altri no. Alcuni avevano uno staff numeroso, altri uno staff insufficiente.
Solo un ospedale era privato: tutti gli altri ricevevano sovvenzioni da fondi statali e federali o, in un caso, universitari.Dopo aver fatto una telefonata all'ospedale per prendere un appuntamento, lo pseudopaziente arrivava all'ufficio ammissioni lamentandosi di aver sentito delle voci. alla domanda di cosa dicessero le voci, rispondeva che erano per lo più poco chiare, ma per quel che poteva intendere gli dicevano "vuoto", "cavo" e "inconsistente". Le voci non gli erano familiari ed erano dello stesso sesso dello pseudopaziente.
La scelta di questi sintomi fu fatta per la loro apparente somiglianza con certi sintomi di tipo esistenziale. Si ritiene solitamente che tali sintomi abbiano origine da uno stato di dolorosa ansietà che deriva dal prendere coscienza che la propria vita è priva di significato. E' come se la persona allucinata stesse dicendo: "La mia vita è vuota e inconsistente".
La scelta di questi sintomi fu anche determinata dall'assenza di qualsiasi testo scritto nella letteratura clinica su psicosi esistenziali.Oltre ad inventare i sintomi e a falsificare il nome e l'impiego, non furono compiute altre alterazioni della storia personale o delle circostanze specifiche. Gli eventi significativi della vita dello pseudopaziente furono presentasti nella forma in cui si erano realmente verificati.
I rapporti con i genitori e i fratelli, con il coniuge e i figli, con i compagni di lavoro e di scuola furono descritti così com'erano o com'erano stati.
Furono descritte le frustrazioni e le sofferenze, così come lo furono le gioie e le soddisfazioni.
E' importante che si menzionino queste cose, se non altro perché hanno influenzato nettamente i successivi risultati, tesi ad una diagnosi di salute mentale, dal momento che nessuna delle loro storie o dei loro comportamenti abituali era in alcun modo patologica.Immediatamente dopo l'ammissione nel reparto psichiatrico, lo pseudopaziente cessava di simulare ogni sintomo di anormalità.
In alcuni casi, si verificava un breve periodo di nervosismo e ansia, dato che nessuno degli pseudopazienti davvero credeva che sarebbe stato ammesso in ospedale tanto facilmente.Identificati come impostori?
Invero il timore che avevano tutti quanti era di essere subito identificati come impostori e di trovarsi quindi in una situazione estremamente imbarazzante. Inoltre, molti di loro non erano mai entrati prima in un reparto psichiatrico e anche coloro che vi erano già entrati erano comunque sinceramente preoccupati di quello che sarebbe potuto accadere.Il loro nervosismo, dunque, era del tutto giustificabile, ma in seguito diminuì rapidamente. Se si esclude questo breve periodo d'ansia, l'infiltrato si comportò in reparto così come si comportava "normalmente", parlando con i pazienti e con lo staff così come avrebbe fatto abitualmente.
Siccome in un reparto psichiatrico ci sono pochissime cose da fare, lo pseudopaziente cercava di intrattenersi con gli altri conversando.
Quando lo staff gli chiedeva come si sentisse, diceva che stava bene e che non aveva più sintomi. Si atteneva alle istruzioni che gli davano gli inservienti e consentiva alla somministrazione di farmaci (che però non venivano ingeriti), seguendo le indicazioni che gli venivano date quando si trovava in sala-pranzo.Oltre alle attività che gli era possibile svolgere nel reparto accettazione, l'infiltrato trascorreva il tempo scrivendo le sue osservazioni sul reparto, sui pazienti e sullo staff.
Inizialmente queste annotazioni venivano scritte "in segreto", ma non appena apparve chiaro che nessuno prestava attenzione, gli pseudopazienti si misero a scriverle su normali blocchi di fogli in luoghi pubblici, come il soggiorno.Lo pseudopaziente, proprio come se fosse stato un vero paziente psichiatrico, era entrato in ospedale senza sapere assolutamente quando sarebbe stato dimesso. Ad ognuno di loro fu detto che per uscire avrebbe dovuto contare solo sui propri mezzi, riuscendo soprattutto a convincere lo staff di essere guarito.
Gli stress psicologici associati all'ospedalizzazione si rivelarono considerevoli: tutti gli pseudopazienti, tranne uno, avrebbero voluto essere dimessi quasi subito dopo essere stati ammessi.Erano quindi motivati non solo a comportarsi da persone sane, ma anche ad essere presi come esempi di collaborazione. Che il loro comportamento non sia stato in alcun modo distruttivo è confermato dalle relazioni degli infermieri, secondo le quali i pazienti si comportavano in modo "amichevole", "collaboravano" e "non mostravano alcun segno della loro anormalità".
Le persone normali non sono identificabili come sane di mente
Nonostante si mostrassero pubblicamente sani di mente, gli pseudopazienti non furono mai identificati come tali. Ammessi con una diagnosi di schizofrenia, con una sola eccezione furono tutti dimessi con una diagnosi di schizofrenia "in via di remissione".
L'etichetta "in via di remissione" non deve in alcun modo essere liquidata come pura formalità, perché mai nel corso dell'ospedalizzazione era stata sollevata alcuna domanda su una possibile simulazione da parte loro, né per altro vi è alcuna indicazione nelle cartelle cliniche dell'ospedale che fosse emerso alcun sospetto a proposito del vero status degli pseudopazienti.Sembra invece evidente che, una volta etichettato come schizofrenico, lo pseudopaziente sia rimasto intrappolato in questa etichetta.
Se lo pseudopaziente doveva essere dimesso, la sua malattia doveva naturalmente essere "in via di remissione"; ma non era del tutto sano, né mai lo era stato dal punto di vista dell'istituzione.
L'incapacità di rilevare la salute mentale nel corso del periodo di degenza in ospedale può essere dovuta al fatto che i medici operano con forti pregiudizi: è meglio sbagliare per eccesso di prudenza, sospettare l'esistenza di una malattia anche in una persona sana.Ma quello che può valere per la medicina non vale nello stesso modo per la psichiatria. Le malattie mediche, benché siano eventi sfortunati per chi ne è colpito, non comportano solitamente un pregiudizio peggiorativo sull'individuo in questione. Le diagnosi psichiatriche, al contrario, portano con sé uno stigma personale, giuridico e sociale.
Gli psichiatri sono informati della presenza degli impostori
Era importante scoprire se la tendenza a diagnosticare come malato di mente chi era invece sano potesse essere invertita.
Il seguente esperimento fu messo in atto in un ospedale dove venivano svolte attività di ricerca e di insegnamento, il cui staff era venuto a conoscenza dei nostri risultati ma non voleva credere che un errore così macroscopico potesse verificarsi nel proprio ospedale.
Lo staff fu informato che in un certo momento, nel corso dei tre mesi successivi, uno o più pseudopazienti avrebbero cercato di essere ammessi in questo ospedale psichiatrico. Così ad ogni membro dello staff fu chiesto di classificare ogni paziente che si presentava in accettazione o in un reparto a seconda della probabilità che quest'ultimo avesse d'essere uno pseudopaziente.Si usò una scala divisa in dieci punti, dove il punteggio 1 o 2 rifletteva la convinzione quasi assoluta che il paziente fosse un'impostore.
Si ottennero punteggi per tutti i 193 pazienti ammessi nel periodo dei tre mesi per subire un effettivo trattamento psichiatrico.
A tutti i membri dello staff che avevano avuto in prima persona responsabilità nei loro confronti - inservienti, infermieri, psichiatri, medici e psicologi - fu richiesto di dare il loro giudizio.Quarantun pazienti furono considerati con un alto grado di sicurezza come pseudopazienti da almeno un membro dello staff. Ventitré furono considerati sospetti da almeno uno psichiatra. Diciannove furono considerati sospetti da uno psichiatra e da un altro membro dello staff.
In realtà nessun vero pseudopaziente (per lo meno del nostro gruppo) si presentò durante questo periodo in quell'ospedale.L'esperimento è istruttivo. Indica che la tendenza a designare malata di mente la gente sana può essere invertita quando la posta in gioco (in questo caso il prestigio e l'acume diagnostico) è alta.
Ma cosa si deve dire delle diciannove persone per le quali fu sollevato il sospetto che fossero "sane" da parte di uno psichiatra e di un altro membro dello staff? Erano davvero "sane" queste persone, o si trattava piuttosto del fatto che lo staff, per evitare di sbagliare definendo "matto" il sano, tendeva a definire "sano" il matto?
Non c'è modo di saperlo, ma una cosa è certa: qualsiasi processo diagnostico che si presti ad errori così massicci non può essere considerato molto attendibile.
Conclusione: non siamo in grado di distinguere la salute dalla malattia mentale. E' deprimente pensare in che modo questa affermazione sarà utilizzata.
Non solo deprimente, ma anche spaventoso: quante persone, viene da chiedersi, sono sane di mente ma non sono riconosciute tali nelle nostre istituzioni psichiatriche? Quante sono state stigmatizzate da diagnosi ben intenzionate, ma ciononostante errate?A proposito di quest'ultimo punto, si ricordi ancora una volte che l'errore nelle diagnosi psichiatriche non ha le stesse conseguenze che nelle diagnosi mediche.
Una diagnosi di cancro che si scopre errata provoca molto scalpore. Ma raramente si scopre che diagnosi psichiatriche siano errate: l'etichetta resta attaccata, come eterno marchio d'inferiorità.Commento di Corrado Penna
(membro del Comitato di base contro la psichiatria di Messina)L'esperimento di Rosenham è senza dubbio la dimostrazione più evidente delle menzogne della psichiatria, e vale la pena spendere due parole per chiarire la portata di questi risultati.
Le conclusioni del dottore che organizzò questo esperimento sono: è evidente che negli ospedali psichiatrici non siamo in grado di distinguere i sani dai malati di mente.
Per chi invece ha un'idea più rigorosa dell'operare scientifico, tale esperimento significa molto di più: la negazione dell'esistenza della malattia mentale.
Come si può infatti asserire l'esistenza di una malattia quando non esiste un criterio preciso per distinguerla da uno stato di salute?
Potremmo noi oggi parlare di cancro se non ci fossero ben precisi rilevamenti diagnostici (biopsia, ecografia, radiografia, TAC, ecc.) che permettono un accertamento sicuro della malattia?
Come si può parlare di malattia mentale quando simili esperimenti provano che i giudizi di sano e malato sono in questo campo del tutto soggettivi, quasi casuali verrebbe da dire?D'altronde questa è una caratteristica specifica della psichiatria: essa basa le sue diagnosi non su accertamenti medico-diagnostici quali analisi del sangue, radiografie o altro (come può fare la neurologia che studia con metodo scientifico le malattie del sistema nervoso), bensì su di un'analisi del comportamento.
Per una persona che abbia un minimo di apertura mentale, questo potrebbe bastare a fare capire l'assoluta arbitrarietà dei giudizi psichiatrici, che scadono troppo spesso in valutazioni puramente moralistiche.Qualcuno forse a questo punto si potrebbe chiedere: "Ma non è forse vero che degli scienziati hanno trovato le basi genetiche della malattia mentale?"
Ma la domanda è priva di senso. Mi spiego.
Se non è possibile distinguere uno schizofrenico da una persona sana, come di fa a dire che la schizofrenia si trasmette di padre in figlio per via ereditaria?Gli "scienziati" che fanno simili affermazioni, schiavi del pregiudizio dominante che la malattia mentale esiste, dimenticano in certi casi cosa significa operare con rigore scientifico, e che differenza ci sia fra la scienza e il senso comune; se gli scienziati avessero sempre ragionato in questo modo, crederemmo ancora nella terra piatta!
Breve nota sull'Autore:
Collaboratore di Basaglia nel 1969, il dottor Antonucci dagli anni '70 in poi ha operato a Reggio Emilia e presso il manicomio di Imola, dove ha rivoluzionato le condizioni di vita dei degenti.All'Istituto dell'Osservanza di Imola il medico ha seguito dozzine di donne schizofreniche, molto violente, alcune delle quali vivevano legate ai loro letti da 20 anni. L'ospedale era dotato di camicie di forza e "museruole" di plastica per impedire alle pazienti di mordere.
Il dottor Antonucci iniziò gradualmente a liberare le donne dalla loro reclusione, dedicando molte e molte ore ogni giorno a dei colloqui e "comprendendo veramente a fondo i loro deliri e le loro angosce". Ascoltò le storie di anni di disperazione e di sofferenza "terapeutica" di ciascuna delle donne. Sotto la direzione del medico tutte le "terapie" psichiatriche furono abbandonate, e i reparti psichiatrici più oppressivi smantellati.
Si assicurò che i pazienti fossero trattati con compassione e rispetto e senza l'uso di psicofarmaci. Sotto la sua guida, il reparto dei più violenti divenne quello dei più calmi.
Dopo pochi mesi, le sue "pericolose" pazienti erano tutte libere e passeggiavano tranquillamente nel parco dell'ospedale. Alcune di loro furono in seguito dimesse dall'ospedale e molte impararono a leggere e scrivere e perfino a lavorare e a prendersi cura di sé, per la prima volta nella loro vita.Il dottor Antonucci non solo ottenne risultati migliori, ma lo fece ad un costo più basso. Questi programmi costituiscono la testimonianza definitiva dell'esistenza di vere risposte, e di una speranza di cura anche per i malati mentali gravi.
mandato da Rinaldo Lampis il Martedì Ottobre 11 2005
aggiornato il Venerdì Ottobre 14 2005URL of this article:
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