La prevenzione? Quasi una malattia
Aggiungerei che la prevenzione è una fabbrica della paura che aumenta la possibilità che la persona si prenda una malattia… rlINTERVISTA Gli screening di massa sono, in larga parte, una nevrosi collettiva.
Che non salvano la vita. Lo afferma il libro di uno statistico sanitario.
Di Daniela Mattalia
Panorama 29 Feb 2008E' quasi una parola magica: prevenzione. Già solo a pronunciarla evoca un senso di tranquillità. Del resto non è forse vero che prevenire è meglio che curare? Che facendo i test per la diagnosi precoce dei tumori, che monitorando colesterolo, trigliceridi, pressione e quant'altro, si allontana il rischio di ammalarsi?
Che le cose, in realtà, stiano in altri termini lo dimostra, cifre alla mano, il saggio dello statistico Roberto Volpi, il quale da oltre 30 anni opera in ambito sanitario. Il suo libro L'amara medicina (Mondadori) ha due sottotitoli eloquenti: «perché il sistema della prevenzione non funziona», «come la sanità italiana ha sbagliato strada».
Gli screening di massa, sostiene Volpi, sono uno spreco di tempo e di risorse.
E non garantiscono la salute.
Cosa l'ha spinta a partire, lancia in resta, in una battaglia antiprevenzione?
Mi sono imbarcato in quest'impresa, dopo anni passati a interpretare dati, perché oggi il problema appare in tutta la sua intensità, anche culturale.
La prevenzione è un problema?
Sì, e lo dimostrano le cifre: tanto più viene organizzata in modo indistinto, tutti a fare test per la diagnosi precoce dei tumori o di altre malattie, tanto meno risulta efficace.E che cosa dimostrano le cifre?
Prendiamo i tumori, il bersaglio cardine della medicina preventiva.
E' vero che la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è cresciuta, ma la contabilità delle vittime non ha avuto alcuna flessione. Nel biennio 1980-82 i morti per tumore erano il 23 per cento del totale dei morti, oggi sono oltre il 30 per cento.
Significa una media annua di 40 mila decessi per cancro in più, in Italia, negli ultimi 20 anni.
Sta dicendo che non serve farsi controllare con regolarità?
Sto dicendo che le campagne di screening per tutti non sono la soluzione.
Supponiamo che nella popolazione adulta ci sia un'incidenza dell'1 per cento di un certo tipo di tumore. Per individuare quell'unica persona, dovremmo avere un metodo diagnostico che non esponga a errori. Non solo l'esame in sé, ma anche come viene letto, interpretato, visto da altri occhi.E invece?
Invece che cosa succede, per esempio, per la mammografia?
Cito un rapporto dell'Osservatorio nazionale screening: su 1.000 donne che l'hanno fatta, 88 vengono richiamate per ulteriori controlli, ossia per sospetto tumori. Ma poi quelli presumibilmente identificati sono 6-7 ogni 1.000 donne. Intanto tutte hanno dovuto fare test ansiogeni e invasivi, come prelievi e biopsie.Però in quei 6-7 casi, il tumore è stato individuato.
Non è nemmeno detto. Fra le donne positive ai test e che poi affrontano la terapia chirurgica, 340 su 1.000 hanno una lesione benigna. Perché, per ammissione stessa di chi segue gli screening, non sempre i medici sono preparati, le procedure diagnostiche sono eseguite in modo molto diversificato anche a pochi chilometri di distanza, con dislivelli nei risultati.Ma il messaggio non può essere: non fate nulla perché tanto non serve.
Ovvio che no. Quello che va detto, però, è che questa riconversione della sanità verso la prevenzione a tutto campo non si basa su elementi di fatto, quanto piuttosto su convenienze della medicina. Spingendo tutti a controllarsi, si gonfia la spesa sanitaria, si creano liste di attesa, si producono falsi positivi che richiedono altri esami. Una nevrosi collettiva nello sforzo di fare lo slalom tra un rischio e l'altro.C'è un modo alternativo, più efficace, di organizzare la prevenzione?
La popolazione da esaminare, che si tratti di tumori, di malattie cardiocircolatorie o altro, va selezionata tenendo conto di un rischio concreto, non teorico. Solo così il metodo diagnostico può sbagliare meno.
Il ruolo chiave dovrebbero averlo i medici di base, che conoscono i pazienti, l'anamnesi. Ma ormai non prendono decisioni se non hanno esami in mano.
Si guardi quello che succede in pediatria. Abbiamo oltre 7 mila pediatri di base.Non va bene?
Andrebbe bene se facessero da filtro. Invece, ecco il paradosso: siamo l'unico paese ad avere i pediatri di base, ma abbiamo anche il maggior numero di ricoveri infantili e di accessi ai pronto soccorso.
La dimostrazione che più si medicalizza il sistema, più si crea questo effetto di ricerca spasmodica della salute.Forse è anche una reazione a un ambiente dove, così ci dicono, il rischio è ovunque: cibi poco sani, vita sedentaria, città inquinate...
Sulle città la fermo subito. Anche qui i dati sfatano qualche luogo comune. Per esempio che si viva di più nelle campagne, lontano da traffico e smog. E' spesso il contrario. L'analisi dei dati mostra che il livello di mortalità è minore nelle città, anche quelle grandi, che in campagna. Non solo: nella provincia di Sondrio, poco industriale e poco inquinata, si vive in media 4 anni meno che in quella di Firenze.Un'enormità. Forse la metropoli aiuta la longevità. C'è più vita, più opportunità di realizzare progetti, di avere un lavoro appagante, di sentirsi al centro di processi creativi, di divertirsi. Leggere un libro, andare al cinema, non fa bene alla salute?
I rischi non spiegano tutto. E accanto all'epidemiologia del rischio dovrebbe nascere anche un'epidemiologia dei vantaggi.
Daniela Mattalia
mandato da Rinaldo Lampis il Lunedì Giugno 30 2008
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http://www.newmediaexplorer.org/rinaldo_lampis/2008/06/30/la_prevenzione_quasi_una_malattia.htm
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